ALL’EPOCA UNA STAMPA DI LICHTENSTEIN LA SI TROVAVA A 80,90 MARCHI
Nome: Karsten Greve Paese: Svizzera Professione: gallerista, Colonia, Parigi, St. Moritz

Lei è oggi tra i più grandi galleristi al mondo.
Come ha iniziato?

All’inizio non avevo un soldo. Dovevo vendere velocemente per non morire di fame. Mi è capitato anche di dover accettare prezzi stracciati. Ho lavorato per sei mesi in una fabbrica di acciaio laminato, facendo il primo turno. È stata un’esperienza interessante: in prima fila c’erano solo stranieri e studenti, 30 metri dietro di noi gli operai tedeschi. Ricordo il rumore e il calore infernali quando il liquido veniva fuori. Ma c’era una solidarietà pazzesca tra coloro che lavoravano davanti. E poi l’appagante sensazione di guadagnare 1000 marchi con le proprie mani. In quel periodo nel fine settimana me ne andavo da Colonia a Roma. Lì incontravo gli artisti e il lunedì mattina ero di nuovo in galleria. Non c’era nessun altro a lavorare con me, e sinceramente non ricordo neanche quando è stata la prima volta che ho avuto una segretaria. Per anni ho abitato nella galleria. Fino al 2000 non avevo neppure un conto privato.

Lei è stato in contatto sin da subito con i grandi nomi di oggi…

Nel 1969 – allora avevo 23 anni – avevo già Twombly, Beuys, Fontana, Yves Klein, de Kooning, Cornell, Kounellis. Avevo un quadro di Twombly e quando l’ho mostrato a mio padre gli ho detto: «Questa è la mia pensione di vecchiaia». Era scioccato. Quel quadro c’è l’ho ancora. Vale dagli 8 ai 10 milioni. Quando andavo a scuola, si poteva acquistare un Lichtenstein per 80 o 90 marchi. Un disegno di Beuys forse per 500. Polke era in vendita a 300 marchi. Allora l’affitto deve essere costato a Polke 1500 marchi, un quadro di grandi dimensioni doveva costare 2000 e un disegno 300 marchi. A volte in auto avevo un catalogo di questi lavori: nel giro di una settimana li vendevo tutti; per un’opera di 300 marchi ne incassavo 450.

Negli anni ‘70 e ‘80 ho comprato anche dei Calder, non facili da vendere sebbene fosse già famoso. Lo si trovava comunque a prezzi ancora convenienti, tra i 30 e i 50.000 dollari. Mentre oggi i suoi lavori sono stimati tra i 2 e gli 8 milioni.

Com’era il mercato dell’arte in quel periodo?

Il concetto di «guadagnare con l’arte», così come lo conosciamo oggi, in Germania non esisteva proprio. Per molti anni in Germania il commercio di arte contemporanea è stato associato a qualcosa di poco serio, decadente, quasi a un tabù. C’erano stati molti commercianti ebrei, ma questa vecchia guardia di cultori dell’arte è venuta a mancare o è fuggita durante il Terzo Reich, portandosi con sé tutto il sapere.

E oggi?

Abbiamo dovuto attendere gli anni ‘80 per assistere a dei cambiamenti. Tra il 1990 e oggi le cose si sono poi mosse nella direzione sbagliata. Oggi non si parla che di soldi. Ne è un esempio l’«art investor». Oppure basta sfogliare le pagine della FAZ o della Süddeutsche: quando scrivono di aste, non parlano dell’opera, ma parlano dell’artista in questi termini: «sconosciuto, fresco sul mercato». Altro esempio: le accademie, che ora offrono corsi in «economia e gestione della cultura», insomma un’infarinatura di economia aziendale e dell’arte di vendersi. E poi una o due volte l’anno le grandi accademie organizzano un Open Day e vendono tutto. Un circuito comprensibile, ma perverso. Per i giovani artisti i prezzi schizzano subito in alto in maniera esorbitante. Negli anni ‘80 sono stato anche consulente del salone ART Basel. Tra le altre cose che facevamo c’era organizzare una sezione dedicata ai giovani artisti chiamata «Statements». Allora niente poteva costare più di 5000 franchi. Oggi non c’è invece niente che costa meno.







Cosa ne pensa di questo hype persistente attorno all’arte?

Questo è un termine nuovo, preferisco parlare di mode. Ci sono sempre state, poi tramontano e finiscono per scomparire. Sembrerebbe che in generale i prezzi siano aumentati, ma poi a guardar bene non è così. Gran parte degli artisti è esclusa. Al contrario. Gli artisti diventano sempre più economici. A New York ogni anno escono 50.000 nuovi artisti. Di questi 49.999 non si vedono più.

Consideriamo gli artisti più costosi della Germania degli anni ‘60. 2/3 di loro oggi non costano nulla. Le mode vanno e vengono. Prendiamo per esempio… Winfred Gaul di Düsseldorf. Allora un suo quadro costava quanto un Fontana. Oggi per un’opera di Fontana ci vogliono almeno 500 quadri di Gaul, e non sono certo che basti. Oppure… Max Brüning di Düsseldorf. Una volta venne il conservatore-direttore della collezione della Renania Settentrionale-Vestfalia per scambiare un Brüning con un Twombly. Oggi un quadro di Brüning vale appena 50-60.000 euro, mentre per un dipinto paragonabile di Twombly si parte dai 6 milioni di euro.


Quanti collezionisti vedono ancora nell’arte davvero l’arte e non solo i soldi che ci sono dietro?

Non abbiamo investitori. Qui nell’Engadina ci sono case e appartamenti nascosti che celano opere favolose. Io credo che, per quanto una borsa di gran qualità possa costare, è tutta una questione di posta in gioco. E chiaramente nessuno vuole perdere soldi. I miei clienti non mi chiedono consigli sull’investimento, ma sulla serietà dell’artista. Se i suoi lavori sono di qualità o meno.

Quando consiglio un collezionista nell’allestimento di una nuova collezione, devo prima convincerlo ad acquistare oggetti che gli causano impicci. Perché solo così diventerà un buon collezionista. Quando si hanno cose difficili da digerire, si sviluppa un altro tipo di lungimiranza.




Uno degli artisti preferiti di Karsten Greve: Wols.



Chi è per Lei il più grande artista tedesco del dopoguerra?

Per me l’artista tedesco più importante dopo il 1940 – attenzione, non dopo il 1945, perché la cultura tedesca ed europea è collassata nel 1939 – è Wols, cioè Wolfgang Otto Schulze. Di lui conserviamo appena 90 opere, di cui 70 nei musei e una qui da me, nel mio appartamento. Ironia della sorte: fu imprigionato in un campo di Avignone perché tedesco. Molti intellettuali tedeschi furono incarcerati dai francesi, sebbene stessero fuggendo proprio dalla Germania nazista. Quando arrivarono le truppe tedesche, i sorveglianti del campo fuggirono, seguiti dai prigionieri, anche loro impauriti dai tedeschi. Wols trovò poi riparo in Spagna e in Francia e si spense precocemente a Parigi per intossicazione da carne di cavallo!

Le è già capitato di cadere nella trappola di un falso?

Per fortuna finora non mi è mai successo. Ovvio che però bisogna stare molto attenti. Per evitare sorprese spiacevoli, è bene controllare attentamente la provenienza delle opere e i risultati delle analisi di autenticità.

Da dove provengono le opere contraffatte?

In passato moltissime provenivano dall’Italia. In futuro probabilmente il 50% dei falsi proverranno dalla Cina, dal momento che lì c’è una formazione accademica classica di eccellente qualità. In migliaia hanno le abilità tecniche per dipingere ad esempio un Rothko. Il cinese che a Long Island ha falsificato i Pollock e i de Koonings è considerato un eroe fuori da Shanghai!

I più furbi hanno dipinto soltanto i soggetti, senza apporre la firma. Questo Beltracchi, però, è un criminale. Ha contraffatto le etichette e tutto il resto. La domanda è come sia possibile che l’esperto di Max Ernst abbia incassato milioni di euro per le perizie e l’intermediazione finalizzata alla vendita.

Rinus Vonhof del museo Kröller-Müller ci ha spiegato che la mafia copre i propri affari con oggetti d’arte di valore. Le sono già capitati episodi del genere?

È una cosa che non ci riguarda. Ma ci sono sicuramente potenziali acquirenti sui quali ci si dovrebbe chiedere se è il caso di lavorare insieme o meno.


Come si fa a riconoscere il valore di un’opera?

Io faccio così: scelgo un quadro e poi mi chiedo chi potrebbe essere così pazzo da condividere il mio entusiasmo. A volte è difficile vendere oggetti perché i collezionisti non ne riconoscono ancora il potenziale. E se si è abbastanza furbi da tenerseli, i veri successi arriveranno più tardi. Prima però niente.


Quale artista definirebbe essere una nuova scoperta?

Per decenni mi è stata fatta questa domanda: «Chi sono i nuovi Picasso?».
Mi viene in mente da una parte una giovane irlandese, Claire Morgan, che vive a Londra e che tra l’altro ha alle spalle una formazione scientifica. Si occupa di tassidermia, oggetti, installazioni. Interessantissima, ma anche difficile. Siamo comunque riusciti sempre a venderla bene. Nelle sue raffigurazioni su carta emerge con distinta prepotenza la sua classe. Dall’altra penso a un’artista come Pierrette Bloch, che realizza principalmente lavori astratti e in Francia è annoverata tra le artiste più celebri del dopoguerra. È nata nel 1928, ma il pubblico, per esempio quello tedesco, la sta scoprendo soltanto ora.







Greve, gallerista e collezionista nella sua biblioteca privata.



Le capita di inseguire opere precise?

Sì. Ci sono opere per le quali ogni anno puntualmente mi metto al telefono. Quadri per i quali aspetto da 30 anni che arrivi il giorno X. Tre anni fa ho acquisito un oggetto cui stavo dietro da 25 anni. La proprietaria era un’anziana signora da cui abbiamo ricevuto una deliziosissima lettera di ringraziamento.


Di che quadro si tratta?

Non me lo ricordo più (ride), ma ce l’ho ancora.
Vede, un buon quadro arriva sempre al momento sbagliato. Quando dico «Ora per favore no, in estate». TA-TAN! Arriva qualcosa.


Ci sono opere che non riesce a vendere perché con loro ha instaurato un rapporto troppo forte?

Sono già andato in crisi più volte per una cosa del genere. Sa cosa si finisce per vendere quando si è in crisi? I propri preferiti. Durante le crisi si ritorna all’essenziale. È un’esperienza dolorosa.

Prima pensavo che il mio magazzino fossero i miei collezionisti. Ora però molti collezionisti sono diventati avidi di denaro. Di recente ho avuto una discussione con un collezionista che aveva acquistato da me un’opera per 1,8 milioni di marchi. Avrei potuto rivenderla a una cifra parecchio più alta, ma niente, al collezionista non bastava.

Se oggi viene a trovarmi ad un salone, il 99% delle opere mi appartengono. Raramente lavoriamo su commissione e quindi ho bisogno di sempre più liquidità per gli acquisti. Perché comunque, sa, continuo ad acquistare.


Le Sue gallerie sono a Colonia, Parigi e St. Moritz. In quale Le piace di più passare il tempo?

Abbiamo un’azienda agricola nel sud della Toscana. Lì facciamo tutto da soli. Ho una casa, quattro metri per quattro su due piani, ampliata un po’ alla volta. Una volta un collezionista è venuto da me e mi ha chiesto: «E dove sono i quadri?», allora io ho aperto la finestra e gli ho detto: «Eccoli qua». Siamo sul Lago di Bolsena, il più grande lago di origine vulcanica d’Europa, 90 km a nord di Roma. Gli artisti che vengono a trovarci lo adorano.


Quali mercati, secondo Lei, promettono di crescere a livello mondiale?

India e Cina. Ma sono mercati difficili. Visitiamo regolarmente questi Paesi e partecipiamo anche alle fiere d’arte locali. 2,5 miliardi di abitanti con migliaia di persone diverse interessate all’arte.


Un collezionista d’arte arriva mai a dire di essere soddisfatto?

Mai.




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